Lo scorso 7 ottobre Hamas ha condotto dalla Striscia di Gaza un massiccio attacco missilistico contro Israele, seguito da incursioni in territorio israeliano, che non trova uguali dai tempi della guerra del Kippur. Tra le principali ragioni dietro all’attacco di Hamas vi sarebbe la volontà di interrompere i negoziati per la normalizzazione delle relazioni tra Israele e paesi arabi (in particolare Arabia Saudita) – un processo avviato con la firma degli Accordi di Abramo del 2020. Dal canto suo, nelle ore immediatamente successive all’aggressione, Israele ha dichiarato lo stato di guerra e dato inizio ad una imponente operazione militare per distruggere il potere politico-militare di Hamas in Palestina. L’attacco palestinese e la reazione israeliana hanno fatto ricadere il Medio Oriente nel caos, con il rischio di un allargamento del conflitto e l’intervento di attori terzi. Infatti, mentre i paesi musulmani più moderati e laici come l’Egitto e la Turchia hanno espresso solidarietà nei confronti delle vittime israeliane, l’Iran e gli Hezbollah libanesi si sono schierati subito con il gruppo palestinese, facendo temere una escalation.
In questo contesto, l’Egitto rappresenta un attore di primaria importanza dato il suo storico ruolo di mediatore chiave nel conflitto israelo-palestinese. Il ruolo di mediazione del Cairo deriva dalla storia dei rapporti israelo-egiziani della seconda metà del Novecento. Nel 1967, in seguito alla vittoria israeliana nella Guerra dei sei giorni, l’Egitto aveva dovuto cedere a Israele la Striscia di Gaza (annessa nel 1949) e la penisola del Sinai. Tuttavia, in seguito alla rinnovata vittoria israeliana nella guerra del Kippur (1973) e ai negoziati segreti di Camp David sottoscritti alla Casa Bianca dal presidente egiziano Anwar al-Sadat e dal primo ministro israeliano Menachem Begin sotto l’auspicio del presidente americano Jimmy Carter (1978), si giunse alla firma del trattato di pace israelo-egiziano del 1979 e al ritiro delle truppe israeliane dal Sinai. Di conseguenza, l’Egitto divenne il primo paese arabo a riconoscere Israele, venendo per questo espulso dalla Lega araba (vi sarebbe rientrato solo nel 1989). Sin dai tempi degli accordi di Camp David, dunque, l’Egitto rappresenta un interlocutore privilegiato nel contesto della crisi israelo-palestinese.
Dall’inizio della nuova crisi mediorientale, l’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi ha avviato intensi contatti telefonici con i suoi omologhi e alti funzionari internazionali per tentare di frenare l’escalation tra palestinesi e israeliani. Al-Sisi ha messo in guardia da un “circolo vizioso”, facendo sapere che era intenzionato a stabilire intensi contatti a tutti i livelli per contenere la crisi, a partire dalle organizzazioni internazionali. In una chiamata con il presidente francese Emmanuel Macron, al-Sisi ha discusso di come coordinare gli sforzi per fermare l’escalation nella Striscia di Gaza. Immediatamente dopo l’attacco del 7 ottobre, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Hassan Shoukry ha lanciato diversi appelli, anche ai suoi omologhi di Stati Uniti, Russia, Turchia, Germania, Francia e Spagna, nel tentativo di mobilitare gli attori internazionali affinché intervenissero subito. In un colloquio con l’Alto rappresentante dell’Unione europea Josep Borrell, Shoukry ha rimarcato l’importanza di far cessare l’escalation in corso ed incoraggiare la moderazione tra le parti. Successivamente, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha esortato l’omologo egiziano a discutere “degli sforzi internazionali e regionali che devono essere intrapresi per contenere la situazione e porre fine alla violenza e alla perdita di vite umane”; al contempo, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha sottolineato con la controparte egiziana “la necessità di fermare immediatamente l’escalation” e di ricondurre la crisi in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Shoukry ha dunque invitato il Consiglio di sicurezza ad “assumersi le proprie responsabilità” e “mettere in atto misure per proteggere i diritti dei palestinesi”. D’altronde, in una telefonata con il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi, Shoukry ha espresso profonda preoccupazione per il progressivo e pericoloso deterioramento degli eventi. Anche la Giordania, come l’Egitto, rappresenta l’altro attore regionale storico ad aver stretto accordi di pace con Israele prima delle normalizzazioni diplomatiche degli accordi di Abramo. Infine, Shoukry ha anche chiamato l’omologo degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Abdullah bin Zayed, rappresentante di un paese chiave nel contesto delle normalizzazioni diplomatiche arabo-israeliane, per discutere “della gravità della situazione attuale e della necessità di compiere ogni sforzo per evitare che la situazione della sicurezza sfugga al controllo”.
Nel clima di odio e di sentimento antisraeliano, l’8 ottobre un gruppo di turisti israeliani è stato attaccato ad Alessandria d’Egitto mentre si trovava a bordo di un autobus da parte di un agente di polizia egiziano. L’attacco ha portato alla morte di tre persone, due turisti israeliani e la loro guida. La notizia dell’attacco in Egitto, dove il sentimento anti-israeliano è particolarmente forte, è arrivata mentre Israele dava inizio alla controffensiva contro i militanti palestinesi a Gaza. In seguito all’attentato, Israele ha chiesto ai suoi cittadini di abbandonare l’Egitto.
Dopo l’attacco di Hamas contro Israele, l’intelligence egiziana si è dimostrata cooperativa nei confronti del governo israeliano, rendendo noto che Israele aveva ignorato ripetute segnalazioni che gli erano state inviate. Un funzionario dell’intelligence egiziana ha affermato che l’Egitto aveva ripetutamente avvisato gli israeliani che “qualcosa di grosso” stava per accadere, aggiungendo che i funzionari israeliani avevano sottovalutato questi avvertimenti, concentrandosi sulla Cisgiordania e minimizzando la minaccia proveniente da Gaza. Tuttavia, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha definito “fake news” l’indiscrezione secondo cui il capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamel lo avrebbe avvisato dieci giorni prima dell’operazione contro Israele.
Il 10 ottobre l’Egitto ha deciso di chiudere il valico di Rafah, che collega il paese all’enclave palestinese di Gaza. Al contempo, al-Sisi ha ordinato l’invio di un convoglio di aiuti umanitari in Palestina, ore dopo che le autorità israeliane avevano avvertito che qualsiasi aiuto destinato alla Striscia di Gaza sarebbe stato preso di mira dai bombardamenti. Nel frattempo il governo egiziano rendeva noto il suo profondo rammarico per l’aumento delle violenze, che stava minacciando la pace internazionale ed era in contraddizione con la Carta delle Nazioni unite volta a preservare i diritti umani. In questo senso, mentre le operazioni israeliane contro Gaza si stavano intensificando, il 15 ottobre al-Sisi comunicava a Blinken che l’intervento di Israele andava oltre il diritto all’autodifesa, traducendosi in una punizione collettiva. Questo concetto è stato poi ribadito da al-Sisi nell’incontro tenuto il 19 ottobre al Cairo con il re di Giordania Abdullah II. Il Cairo invitava, inoltre, la comunità internazionale a esortare Israele a fermare gli attacchi e le azioni provocatorie contro il popolo palestinese e a aderire ai principi del diritto internazionale umanitario per quanto riguarda le responsabilità di uno Stato occupante. Nel frattempo, si arenava l’accordo tra Stati Uniti ed Egitto per consentire agli oltre cinquecento americani presenti a Gaza di lasciare la Striscia attraverso il valico di Rafah. Il Cairo avrebbe acconsentito l’uscita solo se i palestinesi avessero ottenuto aiuti umanitari attraverso lo stesso valico in direzione opposta.
Il 16 ottobre, attori di primo piano nel conflitto come Egitto, Siria, Iran, Russia e Autorità Palestinese hanno espresso la necessità di una tregua tra Israele e Hamas, esprimendo preoccupazione per il rischio di un’escalation in una guerra regionale. Anche gli Stati Uniti dichiaravano di temere un’escalation e un coinvolgimento diretto dell’Iran. Intanto, Washington garantiva a partire dal 17 ottobre il rispetto dell’apertura del valico di frontiera di Rafah tra Gaza ed Egitto per gli aiuti umanitari nella Striscia, come chiedeva l’Egitto, in cambio della fuoriuscita dei circa cinquecento americani, oltre che degli altri cittadini stranieri e palestinesi con nazionalità straniera presenti. Al contempo, però, Al-Sisi ha manifestato l’opposizione ad accogliere i rifugiati palestinesi da Gaza, ritenendo che altrimenti il Sinai si sarebbe trasformato in un bersaglio per le operazioni militari israeliane.
Il 18 ottobre, in seguito all’eccidio compiuto contro l’ospedale battista Al-Ahli Arabi di Gaza City, al-Sisi ha annunciato tre giorni di lutto nazionale in onore di “tutti i martiri dell’amato popolo palestinese”. La dichiarazione voleva riflettere le profonde condoglianze e la solidarietà dell’Egitto al popolo palestinese di fronte al tragico episodio, sottolineando la necessità di pace e stabilità nella regione e l’impegno dell’Egitto nella ricerca di una soluzione pacifica al conflitto in corso.
Nel summit internazionale del 21 ottobre convocato al Cairo, al-Sisi ha lanciato un appello globale per rivalutare la creazione nel breve periodo di uno Stato palestinese indipendente basato sui confini del giugno 1967 con Gerusalemme Est come capitale. Il summit ha visto la partecipazione dei capi di governo e dei rappresentanti di numerosi paesi mediorientali e del resto della comunità internazionale, tra cui Giordania, Francia, Italia, Germania, Russia, Cina, Gran Bretagna, Stati Uniti e Qatar, nonché funzionari delle Nazioni unite e dell’Unione europea. In quest’occasione, al-Sisi ha invitato i leader a raggiungere un accordo su una road map che ponga fine alla catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza e che rilanci il percorso di pace. La proposta del presidente egiziano prevedeva la fornitura di aiuti a Gaza e l’accordo per un cessate il fuoco, seguito da negoziati per una soluzione a due Stati. Tuttavia, mentre il popolo palestinese era rappresentato da Mahmoud Abbas, l’assenza di rappresentanti israeliani e la rappresentanza statunitense esercitata da un mero incaricato d’affari hanno fortemente diminuito le possibilità che il summit terminasse con soluzioni concrete. Infatti, l’incontro si è concluso senza l’accettazione da parte dei leader e funzionari presenti di una dichiarazione congiunta. Il sostanziale fallimento del summit ha sottolineato come la crisi israelo-palestinese sia lungi da una concreta soluzione, mentre la guerra tra Israele e Hamas prosegue tra spargimenti di sangue e catastrofi umanitarie.
Paolo Pizzolo